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ALBERTO BURRI | Bianco Cretto
估價
550,000 - 750,000 EUR
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招標截止
描述
- Alberto Burri
- Bianco Cretto
- firmato sul retro
- acrovinilico su compensato
- cm 71x49
- Eseguito nel 1973
來源
Acquisito dell’attuale proprietario direttamente dall'artista negli anni Ottanta
出版
Nemo Sarteanesi, Burri: Contributi al Catalogo Sistematico, Fondazione Palazzo
Albizzini, Città di Castello 1990, p. 200
Bruno Corà, Alberto Burri, Catalogo Generale, Pittura 1958-1978, Tomo II, Città di Castello 2015, p. 290, n. 1391, illustrato a colori
Tito Fortuni, Alberto Burri. L'Amicizia, Firenze 2016, p. 95, illustrato
Albizzini, Città di Castello 1990, p. 200
Bruno Corà, Alberto Burri, Catalogo Generale, Pittura 1958-1978, Tomo II, Città di Castello 2015, p. 290, n. 1391, illustrato a colori
Tito Fortuni, Alberto Burri. L'Amicizia, Firenze 2016, p. 95, illustrato
Condition
A professional condition report is available upon request from the department.
"In response to your inquiry, we are pleased to provide you with a general report of the condition of the property described above. Since we are not professional conservators or restorers, we urge you to consult with a restorer or conservator of your choice who will be better able to provide a detailed, professional report. Prospective buyers should inspect each lot to satisfy themselves as to condition and must understand that any statement made by Sotheby's is merely a subjective, qualified opinion. Prospective buyers should also refer to any Important Notices regarding this sale, which are printed in the Sale Catalogue.
NOTWITHSTANDING THIS REPORT OR ANY DISCUSSIONS CONCERNING A LOT, ALL LOTS ARE OFFERED AND SOLD AS IS" IN ACCORDANCE WITH THE CONDITIONS OF BUSINESS PRINTED IN THE SALE CATALOGUE."
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拍品資料及來源
"[Con i Cretti] mettendo in evidenza un fortissimo riferimento alla superficie terrestre, ai suoi lineamenti e, ancora una volta, al conflitto tra vitalità e distruzione, è come se l’artista, attraverso questo difficile procedimento, volesse riordinare i processi naturali, vincere il Caos”
Di Capua-Mattarella, “Palazzo Albizzini-Fondazione Burri”, Milano, 1999 A partire dai primi anni ’70, a cavallo tra le Combustioni e la serie dei Cellotex, si pone l’esperienza artistica dei Cretti, spesse superfici a cassetta nelle quali Burri fa colare un denso impasto ottenuto con la miscela di bianco di zinco, caolino e lo sottopone poi ad essicazione coperto da colle viniliche per il fissaggio. È proprio durante quest’ultimo processo che il cretto “prende vita”. Burri predispone lo spazio all’interno del quale agirà la materia stessa che, come ricorda Italo Tomassoni, “si forma mentre si dà […] riconduce lo spazio a luogo dell’Esserci, la geometria a istinto, il movimento a evento immobile”.
Quasi rievocando la gestualità e la sacralità di rituali archetipici e orfici, nei Cretti l’artista finisce con l’identificarsi con la materia, si fa guidare da essa all’interno del reticolo di fessurazioni geometriche dove la forza incontrollabile dell’elemento naturale sembra incontrare un nuovo ordine e aspirare a un senso universale “nel frammento” finito dell’opera che si autogenera attraverso la propria lacerazione.
La serie dei Cretti, che trova il suo culmine nel Grande Cretto di Gibellina iniziato nel 1985 e terminato nel 1989, pone dunque, ancora una volta, la materia e le sue trasformazioni al centro della riflessione artistica di Burri, “non già punto di partenza, ma di arrivo”, come ebbe a dire Cesare Brandi. Essa assume nei Cretti, come già nelle Combustioni, un ruolo attivo che permette all’opera di “vivere” oltre il gesto dell’artista, continuando e terminando la propria metamorfosi dopo l’intervento diretto e imponendo una sua propria forma finale: essa offre all’artista la sua creatività potenzialmente senza limiti, risolvendo “in sé stessa un destino di distruzione e rinascita”.
Dopo le Combustioni, in cui la materia è sconvolta e alterata da un intervento violento e immediato, la ricerca di Burri si sposta, con i Cretti, verso una direzione più riflessiva e misurata, che, nella sua intrinseca natura, sembra voler accordare le forze contrastanti di ordine e caos che regolano il mondo e la sua materialità: “un processo centrifugo che, mentre si libera e si espande in un vertiginoso eccesso, si solidifica in geometrie naturali e centripete”.
Eseguito nel 1973 e acquisito direttamente dall’artista, sempre rimasto nella stessa collezione dagli anni ’80, Bianco Cretto è uno dei primi, straordinari esempi di questo iconico corpus di opere dell’artista di Città di Castello, che rappresentano un punto cardine della sua produzione e della sua poetica: opera chiave di un Burri che si fa “architetto” di una materia viva, solcata da fessurazioni e metamorfosi non del tutto controllabili, un corpo vivo in continua espansione, esemplificazione e metafora di quell’ordine anarchico e imperscrutabile che è proprio dell’universo naturale.
Man Ray, riflettendo sull’affermazione dell’astrattismo, sosteneva che si sarebbe giunti a “rinunciare a dipingere, ad abbandonare la pittura stessa. Con l’introduzione di materiali diversi, le opere avranno sempre meno l’aspetto di opere d’arte”. A differenza di quanto profetizzato da Man Ray, Burri abbraccia con Bianco Cretto un ritorno all’uso degli strumenti veri e propri del pittore.
L’artista, oltre a riproporre tecniche tradizionali, si avvicina all’arte antica simulando le craquelure dei dipinti, dovute al legaggio mal riuscito del colore e alla trama fitta della tela. In questo modo il maestro dell’Informale sostiene la concezione di “astrazione per decantazione”, ovvero una perdita della figuratività nella storia dell’arte legata all’evoluzione delle modalità espressive degli artisti, grazie ad apologeti della rottura come Kandinskij e Malevic, e non ad un taglio netto slegato dal passato.
Il Novecento si è configurato come un periodo di trasformazione, di cambiamento: stanchi della pittura, avendone apparentemente già indagato tutte le potenzialità, gli artisti hanno preferito sostituirla con la materia: quest’ultima ha tuttavia “risvegliato e mantenuto attiva negli artisti la nostalgia della pittura perduta. […] si poteva tornare a desiderare la pittura solo a pittura sparita”.
Beginning in the early 1970s, in between the celebrated series of the Combustioni and the Cellotex, the artist began executing his Cretti. These were thick surfaces onto which Burri dripped a thick mixture of white zinc and kaolin. He then left to them dry and fixed the work with vinyl glues. It was during this last process that the cracks "came to life". Burri arranged the space within which the material itself would start to act which, as Italo Tomassoni reminds us, “is formed whilst it gives out [...] brings space back into being, geometry to instinct, movement to an immobile event.”
Almost evoking the gestures and sacredness of archetypal and orphic rituals, with his Cretti the artist identified himself with the material, guided by it within the network of geometric cracks where the uncontrollable force of the natural element seemed to meet a new order and aspire to a universality "in the finite fragment" of the work that generates itself even as it ruptures.
The Cretti series, which culminated in the Grande Cretto in Gibellina, 1985-1989, once again placed the material and its transformation at the center of Burri's artistic reflection, it was “not a starting point, but an arrival”, as Cesare Brandi said. With the Cretti, as with the Combustioni, the research assumes an active role that allows the work to ‘live’ beyond the artist's gesture, continuing and ending its metamorphosis after Burri’s direct intervention and imposing its final form by itself. It offers the artist potentially limitless creativity, solving "in and of itself a destiny of destruction and rebirth".
After the Combustioni, in which the matter is distressed and altered by a violent and immediate intervention, Burri's research moves, with the Cretti, in a more reflexive and measured direction which intrinsically seeks to combine the two opposing forces of order and chaos that regulate the world and its materiality: "a centrifugal process which, even as it frees itself and expands in a dizzying excess, solidifies into natural and centripetal geometries".
Executed in 1973 and acquired directly from the artist, Bianco Cretto has remained in the same collection since the 1980s. It is one of the first, and most extraordinary examples of this iconic corpus of works by the artist from Città di Castello, which represent a cornerstone of his production and its poetry. This is a key work by a Burri who is ‘architect’ of a living material, crisscrossed by cracks and metamorphosis that its creator cannot completely control, a living body in continuous expansion, exemplification and metaphor of that anarchic and inscrutable order of the natural universe.
Man Ray, reflecting on abstract art, claimed that he would come to "give up painting, to abandon painting itself. With the introduction of different materials, the works will appear ever less to be works of art". Contrary to Man Ray’s prophesy, Burri embraces a return to the use of the true instruments of the painter with Bianco Cretto. In addition to reproducing traditional techniques, the artist echoes the art of the Old Masters by simulating the craquelures of their paintings caused by the uneven binding of the colour to the dense weave of the canvas. In this way the master of the Informal supported the concept of "abstraction by decantation", that is to say a move away from the figurative in the history of art linked to the evolution of the expressivity of artists such as Kandinsky and Malevich, and not an absolutely clean break from the past.
The 20th Century was a period of transformation: tired of painting, having apparently already fully investigated its potential, artists preferred to replace it with matter. The latter, however, “awakened and kept active in artists the nostalgia of the lost art of painting. [...] you could go back to longing for painting only when the painting was gone”.
Di Capua-Mattarella, “Palazzo Albizzini-Fondazione Burri”, Milano, 1999 A partire dai primi anni ’70, a cavallo tra le Combustioni e la serie dei Cellotex, si pone l’esperienza artistica dei Cretti, spesse superfici a cassetta nelle quali Burri fa colare un denso impasto ottenuto con la miscela di bianco di zinco, caolino e lo sottopone poi ad essicazione coperto da colle viniliche per il fissaggio. È proprio durante quest’ultimo processo che il cretto “prende vita”. Burri predispone lo spazio all’interno del quale agirà la materia stessa che, come ricorda Italo Tomassoni, “si forma mentre si dà […] riconduce lo spazio a luogo dell’Esserci, la geometria a istinto, il movimento a evento immobile”.
Quasi rievocando la gestualità e la sacralità di rituali archetipici e orfici, nei Cretti l’artista finisce con l’identificarsi con la materia, si fa guidare da essa all’interno del reticolo di fessurazioni geometriche dove la forza incontrollabile dell’elemento naturale sembra incontrare un nuovo ordine e aspirare a un senso universale “nel frammento” finito dell’opera che si autogenera attraverso la propria lacerazione.
La serie dei Cretti, che trova il suo culmine nel Grande Cretto di Gibellina iniziato nel 1985 e terminato nel 1989, pone dunque, ancora una volta, la materia e le sue trasformazioni al centro della riflessione artistica di Burri, “non già punto di partenza, ma di arrivo”, come ebbe a dire Cesare Brandi. Essa assume nei Cretti, come già nelle Combustioni, un ruolo attivo che permette all’opera di “vivere” oltre il gesto dell’artista, continuando e terminando la propria metamorfosi dopo l’intervento diretto e imponendo una sua propria forma finale: essa offre all’artista la sua creatività potenzialmente senza limiti, risolvendo “in sé stessa un destino di distruzione e rinascita”.
Dopo le Combustioni, in cui la materia è sconvolta e alterata da un intervento violento e immediato, la ricerca di Burri si sposta, con i Cretti, verso una direzione più riflessiva e misurata, che, nella sua intrinseca natura, sembra voler accordare le forze contrastanti di ordine e caos che regolano il mondo e la sua materialità: “un processo centrifugo che, mentre si libera e si espande in un vertiginoso eccesso, si solidifica in geometrie naturali e centripete”.
Eseguito nel 1973 e acquisito direttamente dall’artista, sempre rimasto nella stessa collezione dagli anni ’80, Bianco Cretto è uno dei primi, straordinari esempi di questo iconico corpus di opere dell’artista di Città di Castello, che rappresentano un punto cardine della sua produzione e della sua poetica: opera chiave di un Burri che si fa “architetto” di una materia viva, solcata da fessurazioni e metamorfosi non del tutto controllabili, un corpo vivo in continua espansione, esemplificazione e metafora di quell’ordine anarchico e imperscrutabile che è proprio dell’universo naturale.
Man Ray, riflettendo sull’affermazione dell’astrattismo, sosteneva che si sarebbe giunti a “rinunciare a dipingere, ad abbandonare la pittura stessa. Con l’introduzione di materiali diversi, le opere avranno sempre meno l’aspetto di opere d’arte”. A differenza di quanto profetizzato da Man Ray, Burri abbraccia con Bianco Cretto un ritorno all’uso degli strumenti veri e propri del pittore.
L’artista, oltre a riproporre tecniche tradizionali, si avvicina all’arte antica simulando le craquelure dei dipinti, dovute al legaggio mal riuscito del colore e alla trama fitta della tela. In questo modo il maestro dell’Informale sostiene la concezione di “astrazione per decantazione”, ovvero una perdita della figuratività nella storia dell’arte legata all’evoluzione delle modalità espressive degli artisti, grazie ad apologeti della rottura come Kandinskij e Malevic, e non ad un taglio netto slegato dal passato.
Il Novecento si è configurato come un periodo di trasformazione, di cambiamento: stanchi della pittura, avendone apparentemente già indagato tutte le potenzialità, gli artisti hanno preferito sostituirla con la materia: quest’ultima ha tuttavia “risvegliato e mantenuto attiva negli artisti la nostalgia della pittura perduta. […] si poteva tornare a desiderare la pittura solo a pittura sparita”.
Beginning in the early 1970s, in between the celebrated series of the Combustioni and the Cellotex, the artist began executing his Cretti. These were thick surfaces onto which Burri dripped a thick mixture of white zinc and kaolin. He then left to them dry and fixed the work with vinyl glues. It was during this last process that the cracks "came to life". Burri arranged the space within which the material itself would start to act which, as Italo Tomassoni reminds us, “is formed whilst it gives out [...] brings space back into being, geometry to instinct, movement to an immobile event.”
Almost evoking the gestures and sacredness of archetypal and orphic rituals, with his Cretti the artist identified himself with the material, guided by it within the network of geometric cracks where the uncontrollable force of the natural element seemed to meet a new order and aspire to a universality "in the finite fragment" of the work that generates itself even as it ruptures.
The Cretti series, which culminated in the Grande Cretto in Gibellina, 1985-1989, once again placed the material and its transformation at the center of Burri's artistic reflection, it was “not a starting point, but an arrival”, as Cesare Brandi said. With the Cretti, as with the Combustioni, the research assumes an active role that allows the work to ‘live’ beyond the artist's gesture, continuing and ending its metamorphosis after Burri’s direct intervention and imposing its final form by itself. It offers the artist potentially limitless creativity, solving "in and of itself a destiny of destruction and rebirth".
After the Combustioni, in which the matter is distressed and altered by a violent and immediate intervention, Burri's research moves, with the Cretti, in a more reflexive and measured direction which intrinsically seeks to combine the two opposing forces of order and chaos that regulate the world and its materiality: "a centrifugal process which, even as it frees itself and expands in a dizzying excess, solidifies into natural and centripetal geometries".
Executed in 1973 and acquired directly from the artist, Bianco Cretto has remained in the same collection since the 1980s. It is one of the first, and most extraordinary examples of this iconic corpus of works by the artist from Città di Castello, which represent a cornerstone of his production and its poetry. This is a key work by a Burri who is ‘architect’ of a living material, crisscrossed by cracks and metamorphosis that its creator cannot completely control, a living body in continuous expansion, exemplification and metaphor of that anarchic and inscrutable order of the natural universe.
Man Ray, reflecting on abstract art, claimed that he would come to "give up painting, to abandon painting itself. With the introduction of different materials, the works will appear ever less to be works of art". Contrary to Man Ray’s prophesy, Burri embraces a return to the use of the true instruments of the painter with Bianco Cretto. In addition to reproducing traditional techniques, the artist echoes the art of the Old Masters by simulating the craquelures of their paintings caused by the uneven binding of the colour to the dense weave of the canvas. In this way the master of the Informal supported the concept of "abstraction by decantation", that is to say a move away from the figurative in the history of art linked to the evolution of the expressivity of artists such as Kandinsky and Malevich, and not an absolutely clean break from the past.
The 20th Century was a period of transformation: tired of painting, having apparently already fully investigated its potential, artists preferred to replace it with matter. The latter, however, “awakened and kept active in artists the nostalgia of the lost art of painting. [...] you could go back to longing for painting only when the painting was gone”.