Lot 33
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Italia, attribuito alla Bottega di Tino di Camaino, (circa 1285-1337)

Estimate
30,000 - 50,000 EUR
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bidding is closed

Description

Rilievo in marmo raffigurante la Vergine col Bambino

Condition

There is overall wear to the surface. There is old damage to the Virgin's crown. Thre is a chip to the proper right side of the arch. There is general surface dirt. Otherwise the condition is good.
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Catalogue Note

PROVENIENZA
Collezione del Barone Michele Lazzaroni, Parigi

BIBLIOGRAFIA
Venturi, Storia dell' Arte italiana, IV.  La Scultura del Trecento, Milano, 1906 (ristampato New York, 1983), fig. 207, p. 287;
E. Carli, Tino di Camaino scultore, Florence 1934;
W. R. Valentiner, Tino di Camaino. A Sienese Sculptor of the Fourteenth Century, Paris 1935;
G. Kreytenberg, Tino di Camaino, Florence 1986;
F. Baldelli, Tino di Camaino, Morbio Inferiore 2007.

Si ringrazia la Dottoressa Francesca Baldelli per la nota, disponibile on line.

Si tratta di un pezzo pregevole che non manca di suscitare  interesse sia sotto il profilo strettamente stilistico, consentendo alcune ulteriori considerazioni sullo scultore senese Tino di Camaino e il suo entourage, sia sotto il profilo tipologico, in quanto appartenente a un filone di produzione ben circoscritto e caratterizzato, la cui invenzione parrebbe risalire proprio allo stesso Tino di Camaino, nonché per quanto riguarda la storia degli studi su questo maestro toscano, cui il rilievo venne attribuito da Adolfo Venturi già all'inizio del secolo scorso.

Parigi, Raccolta del barone Michele Lazzaroni, Madonna col Bambino. Tino di Camaino. Recita così la didascalia che accompagnava la riproduzione fotografica con la quale Adolfo Venturi nel 1906 rendeva nota l'esistenza del rilievo dalle pagine del quarto volume della sua "Storia dell'Arte italiana".

In seguito dell'opera si sarebbero perse le tracce - tanto che neppure oggi sembra possibile stabilire quando sia uscita dalla collezione Lazzaroni e attraverso quali passaggi e in quale momento essa sia poi giunta nella collezione di Salvatore Romano – e contestualmente sarebbe uscita dalla storia degli studi; circostanza sulla quale di sicuro dovette anche influire la natura decisamente fuorviante della riproduzione proposta da Venturi, come è poi risultato evidente a seguito della visione diretta del pezzo.

Il rilievo si presenta come una lastra cuspidata con inscritto al suo interno un archetto trilobo su colonnine, il quale a sua volta accoglie l'immagine della Vergine con il Bambino, secondo un andamento compositivo che perfettamente si adatta alla tipologia della pala marmorea scolpita, denunciando in tal modo fin da subito la sua appartenenza a uno dei filoni più proficui e innovativi praticati da Tino di Camaino e dalla sua cospicua bottega nei lunghi anni della permanenza napoletana dello scultore.

Sembra anzi che proprio al maestro senese spetti il merito di aver introdotto la consuetudine di tale tipologia scultorea, già fin dai tempi delle sue prime prove autonome, quando a Pisa - sottrattosi da poco alla tutela di Giovanni Pisano, del quale fu allievo, e con la cui arte rivaleggiò a lungo, cercando di emularne gli esiti in un continuo gioco di contrapposizioni e rimandi - si dedicava alla tomba altare di San Ranieri (1301-1306 ca.), presso cui inseriva una notevolissima lastra cuspidata, capace di dialogare alla pari con le innovazioni tipologiche contemporaneamente in atto in pittura: non fosse altro che per la Vergine in trono fra due gruppi di presentazione - quasi  preludesse già a una vera e propria conversazione sacra - e per le tre scenette apposte a decorare la fronte del sottostante sarcofago, che si dispongono rispetto alla lastra sovrastante proprio come fossero una predella.

Da quella prima esperienza pisana sarebbe disceso un duplice filone che avrebbe trovato compiuta realizzazione nei lunghi anni della permanenza  napoletana dello scultore, il quale, ormai forte delle monumentali imprese toscane, giunse nella città partenopea all'incirca nel 1324, per erigervi la sepoltura  della principessa Caterina d'Austria.  

Da un lato stanno infatti le grandi cone d'altare - come quella, oggi ridotta in frammenti ma di altissima qualità, che Tino di Camaino dovette realizzare per la Badia di Cava dei Tirreni -, mentre dall'altro si dispongono alcune 'tavole' marmoree destinate alla devozione privata; altaroli e palettine, per mezzo dei quali lo scultore avrebbe avviato una riflessione continua e approfondita, trasformando le suggestioni pisane, peraltro contaminate dalla forzata coesistenza con gli elementi tipici di un monumento sepolcrale, in una realtà autonoma, pensata e realizzata in continuo dialogo, se non addirittura in rivalità, con la pittura contemporanea, che si vide pertanto privata di una delle sue prerogative di esclusività.

In tali opere la critica ha individuato un filone specifico, un nuovo tema dell'arte trecentesca cui è stata conferita la denominazione di immagine scolpita, intendendo in tal modo sottolineare come l'arte dello scalpello vi rivaleggiasse con la pittura non solo sotto il profilo tipologico, bensì anche stilistico, là dove il dettato scultoreo vi appare capace di assumere tonalità spiccatamente pittoriche.

Sollecitato dalla vita di corte, stimolato dalle esigenze specifiche di una committenza di rango elevato, quale dovette essere quella degli Angiò,  a partire all'incirca dall'inizio degli anni Trenta lo scultore avviò quindi un esercizio sempre più serrato su tale di tipologia di prodotto, e dal suo atelier uscirono piccole, preziosissime opere destinate alle alte sfere della gerarchia angioina, come il pregevolissimo rilievo, oggi alla National Gallery di Washington, raffigurante la Vergine in trono con il Bambino che fra angeli e santi riceve l'omaggio della regina Sancia di Maiorca, devotamente genuflessa ai suoi piedi.

Negli ultimi decenni la critica ha raccolto sotto il nome di Tino di Camaino altri pezzi appartenenti a questa medesima tipologia, andando a costituire un piccolo ma significativo gruppo di opere di cui, oltre al già citato rilievo di Washington, fanno parte anche la Vergine con il Bambino del Victoria and Albert Museum (ne esiste una replica nella Hyde Collection a Glenn Falls N. Y.), una lastra di collezione privata raffigurante San Giovanni Battista e un profeta, il trittico, sempre di collezione privata con la Vergine fra Santa Caterina e il Battista, il cui verso, con il Cristo in pietà fra la Vergine e San Giovanni, è conservato a Siena nella Collezione Salini, la Vergine col Bambino della basilica di Santa Caterina a Galatina.

Le analogie tra il rilievo e il mondo tinesco non si fermano però alle questioni tipologiche e si estendono anche allo stile. Sebbene oggi, dopo che svariati decenni di studi hanno ricostruito il profilo dello scultore in maniera più sistematica e coerente di quanto non fosse agli inizi del Novecento, una piena attribuzione a Tino di Camaino non sia più sostenibile, ciononostante il pezzo mostra di accoglierne le attitudini, uniformandosi all'idioma espresso dal Maestro senese negli anni partenopei e candidandosi a essere valutato quale opera della bottega, presumibilmente eseguita sotto la sua stessa supervisione negli anni estremi della sua attività. 

Nell'osservarla si scorgono infatti i tratti evidenti di una piena condivisione sintattica e lessicale, cosicché, per quanto attraverso la mediazione di un maestro diverso da Tino, il rilievo mostra di discendere in linea diretta dalle più antiche prove realizzate dallo scultore in terra di Toscana.

In esso sono infatti gli esiti più estremi di quel lungo procedimento di decantazione, per mezzo del quale il linguaggio di Tino in quel di Napoli è andato gradualmente declinandosi in cadenze di minore 'espressionismo', sciogliendo gli accenti ancora neoromanici delle precedente produzione in tonalità di più cortese goticismo.

Vi si riscontrano ad esempio proporzioni corporee più esili e allungate che non quelle degli anni pisani e fiorentini, secondo un modello che trova facile riscontro anche in alcune delle opere migliori della metà degli anni Trenta, come la Madonna di Galatina o le figure del rilievo con la regina Sancia di Maiorca, con il quale certamente il maestro realizzò una delle sue più forti impennate gotiche.

Vi tornano, ma ingentiliti dalle nuove istanze partenopee, i panneggi tipicamente corposi di tutta la produzione dello scultore senese, i quali, costruiti per pieghe pastose che si generano l'una dall'altra, restano concentrati nella parte inferiore della figura della Vergine, elegantemente introdotti dalle più fluide cadenze del manto, che cala dall'alto fino ad adagiarsi sulla cornice, coprendone un buon tratto. Effetto illusionistico anch'esso facilmente riscontrabile in molti altri passaggi dell'arte dello scultore senese, già a partire dagli ultimi esemplari prodotti in Toscana - come dimostra il tondo con La Vergine e il Bambino del North Carolina Museum of Art di Raleigh, databile al 1321 - ma che lo scultore non mancherà di riproporre anche durante il soggiorno napoletano, variamente modulandone l'intensità (si vedano ad esempio i frammenti di sarcofago del Coro delle Monache in Santa Chaira a Napoli).

Al pensiero scultore di Tino di Camaino allude anche il braccio destro della Vergine, interpretato secondo quella tipologia allungata  e un po' piatta che da sempre il maestro senese aveva proposto. E di lui parlano i volti dei due protagonisti, i quali, sebbene illanguiditi rispetto all'espressionismo quasi ferino cui Tino era venuto abituando il suo pubblico fin dai primissimi esordi, e certamente reinterpretati da una mano non coincidente con quella del Maestro senese, ancora discendono dalle prime Madonnine stanti da lui eseguite a partire dalla fine del primo decennio del Trecento. La tipologia leggermente schiacciata del volto della Vergine, che si esalta ulteriormente nel leggero movimento della testa verso il collo, le guance come rigonfie, nonché la piccola bocca sul mento appena pronunciato e la morbidezza delle carni tra quest'ultimo e il collo, si riferiscono infatti in maniera evidente al più sincero esempio dello scultore. 

Il viso del Bambino pare inoltre accostarsi  a quello, peraltro acconciato in maniera piuttosto simile, della Vergine di Galatina, da datarsi, come si accennava, all'incirca al 1335-1336; il che, unitamente alle proporzioni piuttosto slanciate, ai panneggi morbidi e, soprattutto, a quel carattere di normalizzazione in senso più ampiamente gotico e cortese che pervade tutta l'opera e che si è detto essere tipico del Tino di questa fase, spinge a ritenere che anche a questo rilievo debba spettare una cronologia intorno alla metà degli anni Trenta. Sarebbe a dire nel momento della massima espressione gotica del Maestro, entro una congiuntura temporale estremamente circoscritta, durante la quale lo scultore toscano, per quanto anziano, si mostra ancora capace di grandi slanci innovativi, orchestrando variazioni su accordi già noti e ulteriormente declinando il proprio multiforme mondo espressivo.

Questi stessi furono però anche gli anni della più intensa collaborazione con la bottega, il cui intervento, diversamente modulato dalle molte personalità in essa presenti, nella lunga stagione partenopea si fece viepiù incalzante, anche in relazione al continuo intensificarsi degli impegni assunti da Tino per gli Angiò; impegni che lo videro di volta in volta attendere alle sepolture monumentali della famiglia regnante, sovrintendere a lavori di pittura, dirigere opere ingegneristiche o imprese architettoniche. 

Ecco allora che negli ultimi anni della sua attività – l'ultima attestazione in vita risale al giugno 1337 – lo scultore cede sempre maggiore spazio ai suoi aiuti, cosicché dalla sua costola cominciano a delinearsi più filoni espressivi, presumibilmente tanti quanti furono coloro che lo affiancarono, i quali seppero scindere dal magma della sua proteiforme ma indistinta ispirazione singole correnti di pensiero.

E' quanto accade con il monumento funebre a Enrico da Sanseverino, da datarsi anch'esso a cavallo della metà degli anni Trenta e da ascriversi a Tino di Camaino e bottega; opera nella quale più autori dovettero essere attivi, conferendole l'inconfondibile carattere di sincretismo che la qualifica e rendendola particolarmente significativa ai fini della comprensione di questa fase della carriera dello scultore.

Presupposti culturali e critici che perfettamente si adattano al nostro rilievo, in cui si  riscontrano i tratti più tipici dell'immaginario tinesco della fase partenopea, ma declinati alla maniera di una mano sicuramente diversa da quella del Maestro.

Lo si evince dalle modalità di esecuzione di alcuni specifici passaggi, in particolare le mani della Vergine, prive delle inconfondibili, lunghissime dita, le quali in Tino sempre si insinuano tra le vesti, con movenze che le assimilino ad artigli ferini.  Ma soprattutto lo si desume nell'osservare che il rilievo, seppure evidentemente improntato a quello spirito di normalizzazione in senso gotico e cortese che si è detto essere la cifra delle elucubrazioni stilistiche del Maestro in questa fase, ciononostante  sopravanza la misura imposta  da Tino a tale processo di regolarizzazione, cosicché nel momento in cui denuncia la sua adesione a colui che certamente ne ha ispirato il dettato compositivo e stilistico, in quello stesso istante dichiara un paternità di esecuzione distinta dallo scultore senese; rivelando che un diverso esecutore ne ha mediato l'esempio, reinterpretandolo alla luce delle sue prerogative personali.

L'opera - il cui valore aggiunto risiede certamente nell'essere uno degli esemplari di quella tipologia di prodotto, la pala marmorea scolpita, nella cui invenzione Tino di Camaino espresse uno dei suoi momenti più alti, ponendosi come vero e proprio innovatore -  dovette pertanto vedere la luce nell'atelier napoletano del Maestro, realizzata da un valente scultore, cui certamente si deve la gran parte dell'esecuzione, sebbene non si possa completamente escludere che lo stesso Tino, cui indubitabilmente spettò l'ideazione e la direzione, vi abbia almeno parzialmente messo mano.

D'altro canto sono ben note le modalità operative delle botteghe medievali, presso le quali più figure erano attive, assai spesso sovrapponendo il proprio lavoro sotto la direzione di un unico Maestro, capace di conferire unitarietà linguistica e di intendimenti culturali ad opere in realtà nate all'insegna della collaborazione fra più esecutori.

We wish to thank Dr Francesca Baldelli for researching this work and for writing this catalogue entry.

This is a fine piece of great interest not only in purely stylistic terms (casting new light on the Sienese sculptor Tino Camaino and his entourage) and with regard to its typology (belonging, as it does, to a well-defined and specific form of artistic production believed to have been invented by Tino Camaino himself), but also from the perspective of historical studies on this Tuscan master, to whom the relief was attributed by the Italian art historian Adolfo Venturi at the start of the last century.

Paris, Baron Michele Lazzaroni Collection, Madonna and Child, Tino di Camaino.

So reads the caption accompanying the photograph which made the relief's existence famous in 1906 in the fourth volume of Adolfo Venturi's book, Storia dell'Arte Italiana.

After this, all traces of the work appear to have been lost, so much so that, even today, it has not been possible to establish when it left the Lazzaroni collection or how and when it came to be part of Salvatore Romano's collection. At that same time, the work also disappeared from the art history books, a fact undoubtedly influenced by the highly misleading nature of Venturi's photograph which became clear upon direct viewing of the piece.

The relief is in the form of a pointed marble slab with a small three-lobed arch supported by small columns engraved into it, which, in turn, houses the image of the Virgin and Child arranged in a composition in perfect harmony with the style of engraved marble altarpieces, thus instantly confirming it as originating from one of the most fruitful and innovative periods in the artistic production of Tino di Camaino and his large studio during the sculptor's many years in Naples.

Indeed, this Sienese master himself is believed to be responsible for introducing this type of sculpting right from his earliest independent attempts in Pisa (having recently emerged from the shadow  of Giovanni Pisano, his tutor with whom he competed for many years, seeking to emulate his success in a continual game of clashes and references) when he was working on the altar-tomb of St. Rainerius (circa 1301-1306). His contribution to that monument was a remarkable pointed marble slab capable of keeping pace with the typological innovations taking place in painting at that time, not least thanks to the Virgin enthroned between two groups of onlookers - almost precluding a true holy conversation - and the three small scenes decorating the front of the sarcophagus below, which are arranged in relation to the slab above as though they were a predella.

That early experience in Pisa gave rise to a dual artistic production which would unfold through the sculptor's long years spent in Naples where he was called in about 1324, on the strength of the monuments he had produced in Tuscany, to erect the tomb of Princess Catherine of Austria.    

Indeed, on one hand are his large altarpieces (like the one, now reduced to fragments but still of the highest quality, which Tino di Camaino produced for the Abbey in Cava dei Tirreni), and, on the other, are his marble "panels" for private devotion (tri-fold portable altars and small altarpieces), which the sculptor began an ongoing and in-depth process of reflection, developing Pisa's influences - in any case contaminated by their necessary coexistence with the typical elements of sepulchral monuments - into a style of his own, conceived and created in continual dialogue, if not actual competition, with contemporary painting, thus depriving it of a degree of its exclusivity.

In these works, critics have identified a specific artistic form; a new movement in fourteenth-century art which came to be known as the immagine scolpita (sculpted image), a description which emphasises the way in which the art of engraving rivalled that of painting, in terms of both typology and style, where the sculpted material appears capable of taking on distinctly pictorial qualities.

From around the early 1330s, sought-after by the courts and inspired by the specific demands of high-ranking clients, as the D'Anjou family must have been, the sculptor's activities therefore became increasingly focused on this type of work, and his atelier produced small works of great value designed for the highest circles of Angevin society. One such work is the exquisite relief, now in the National Gallery in Washington, depicting the Madonna and Child enthroned with angels and saints receiving homage from Queen Sancia of Majorca, who is kneeling devotedly at the Virgin's feet.

In recent decades, critics have attributed other pieces of this same typology to the name of Tino di Camaino, creating a small but magnificent set of works which include, in addition to the above-mentioned relief in Washington, the Madonna and Child in the Queen Victoria and Albert Museum (of which there is a replica in the Hyde Collection in Glenn Falls, New York), a marble slab from a private collection depicting Saint John the Baptist with a prophet, a triptych, also from a private collection, of the Virgin with Saint Catherine and John the Baptist, whose reverse, depicting a Christ in piety with the Madonna and Saint John, is housed in the Salini Collection in Siena, and the Madonna and Child from the Basilica of St. Catherine in Galatina.

The similarities between this relief and the world of Tino di Camaino do not stop at the issue of typology but extend to style as well. Today, thanks to several decades of study, the sculptor's profile has been reconstructed more systematically and coherently than at the beginning of the twentieth century, and the work can no longer be attributed entirely to Tino di Camaino. However, the piece clearly features his distinctive poses and is aligned with the artistic language expressed by the Sienese master during his Neapolitan years, suggesting it to be work of his studio, presumably created under his supervision during the final years of his activity as a sculptor. 

Indeed, upon observation, clear traces of complete syntactical and lexical alignment are discernable, meaning than, although created through the medium of a master other than Tino di Camaino himself, the relief can be seen to be a direct descendent of the sculptor's earliest works in Tuscany.  

Indeed, it embodies the final results of that long purification process through which Tino di Camaino's language gradually developed into the less "expressionistic" language of Naples, with the Neo-Romanesque elements still visible in his earlier works dissolving into more refined  Gothicism.  

The bodily proportions, for example, are more slender and elongated than those from his years in Pisa and Florence, following a model that is also easily identifiable in some of his best works from the mid 1330s, such as the Madonna in Galatina or the figures from the relief depicting Queen Sancia of Majorca, undoubtedly one of the master's most Gothic works.

The habitual flowing drapery that runs through all the Sienese sculptor's work is visible here, but refined by his new Neapolitan influences, and the old mellow folds, each leading to the next, are now concentrated in the lower part of the figure of the Madonna, elegantly introduced by the more fluid lines of her cloak, falling from above to rest upon the frame. This effect is also easily identifiable in many of the Sienese sculptor's other artistic phases, starting from the last works he produced in Tuscany (as demonstrated by the tondo depicting the Madonna and Child in the North Carolina Museum of Art in Raleigh, dating 1321) but also in those of his Neapolitan phase, with varying intensity (note, for example, the sarcophagus fragments in the Choir delle monache of the Convent of St. Claire in Naples).

Another allusion to Tino di Camaino's sculpting style is the Madonna's right arm, which follows the elongated and rather flat model suggest  by the Sienese master. The faces of the two figures are another reference to him, although they are more gentle than those of the almost feral expressionism to which di Camaino's audiences grew accustomed during his early years and are certainly the work of a hand other than his own, once again descended from the early standing Madonnas he produced from the first decade of the fourteenth century onwards. Indeed, the somewhat flattened nature of the Madonna's face, emphasised by the slight movement of the head towards the neck, the puffy cheeks and the small mouth above a barely pronounced chin, together with the softness of the flesh of the chin and neck, clearly allude to the sculptor's style in its purest form. 

The Child's face, too, seems to resemble that of the Madonna in Galatina (also with a quite similar hairstyle), which dates to around 1335-1336. This, added to the rather slender proportions, the soft drapery and, above all, that more Gothic and refined standardisation that pervades all works said to be typical of Tino during this phase, points to this relief belonging to a time period somewhere in the mid of the 1330s. In other words, when the master sculptor was at the peak of his Gothic style, within a very specific time period during which the Tuscan sculptor, although elderly, was still capable of great innovative leaps, orchestrating variations on established forms and further refining his multi-pronged expressive language.

These were also, however, the years in which his collaboration with his studio was at its height. Indeed, the input of the studio, in the form of the many and various figures that comprised it, became increasingly pronounced during the long Neapolitan period, partly due to the growing number of commissions that Tino di Camaino took on for the D'Anjou family. These commitments required him to work on the ruling family's the sepulchral monuments, supervise paintings and direct engineering works and architectural undertakings. 

For this reason, during the final years of his career - his new date to June 1337 - the sculptor handed over more and more work to his assistants, meaning that his production began to take various expressive forms (presumably as numerous as the artists that worked alongside him) which caused individual stylistic currents to split off from the magma of his protean but indistinct inspiration.

This is the case of the funeral monument to Enrico da Sanseverino, ascribable to Tino di Camaino and his studio, which, like this relief, dates to around the mid 1330s. Several artists must have contributed to this work, giving it is its unmistakeable syncretic character and making it particularly significant for the purposes of understanding this period in the sculptor's career.

These cultural and critical premises are in perfect harmony with our relief, which features the most typical elements of Tino di Camaino's imagery from his Neapolitan period, undoubtedly applied, however, by a hand other than that of the master himself.

This can be deduced from the execution methods of certain sections, particularly the Madonna's hands, which lack the unmistakeable long fingers that always from the robes in di Camaino's work in attitudes that liken them to the talons of wild beasts. Most importantly, however, it is discernable from the observation that this relief, while clearly reflecting that refined Gothic spirit of standardisation (which, as we have seen, is a measure of the master's work during this period), nethertheles Tino is over coming brought to this standardisation process. Hence, just as it denotes the work's proximity to the sculptor, who undoubtedly inspired its composition and style, it also reveals that it was created through the medium of someone other than the Sienese master himself, interpreting it according to that artist's own personal tastes.

The work's added value lies, of course, in the fact that it is an example of that type of artistic production - the carved marble altarpiece - which expresses one of Tino di Camaino's greatest moments and proves him to be a true innovator. The piece must, therefore, have seen the light inside of the master's Neapolitan atelier, created by a worthy sculptor to whom much of the execution must be due, although it is always possible that Tino di Camaino himself, who was undoubtedly responsible for its conception and supervision, may even have had a hand in its production.

It is a well-known fact, in any case, that, in medieval artists' studios, the practice was for several figures to be active, very often working under the direct supervision of a single master who unified the artistic language and cultural references of works that were, in reality, created by a whole team of artists.